Δημοσιεύτηκε στη μηνιαία εφημερίδα «Eureka» (Ιούνιος 2010)
C'è una ragione semplice per cui l'uscita dalla penosa situazione economica di questo paese non è semplice affatto. Quello che è entrato in crisi negli ultimi mesi non è solo la politica economica che ha permesso al debito di salire alle stelle: è l'intero "sistema paese", o l'intreccio della politica con l'economia e la società.
Visto che si tratta di un argomento piuttosto vasto, mi limito a sottolineare un aspetto a mio parere fondamentale della crisi: la drammatica distanza che separa le capacità produttive della nostra economia (almeno così com'è oggi) dalle aspirazioni di tenore di vita (inteso come consumi) da parte dei cittadini.
Da un lato, un modello produttivo basato su salari bassi e specializzazioni altrettanto basse, sull'applicazione limitata delle tecnologie, sulla diffidenza delle imprese verso l'innovazione, sul disprezzo delle regole fiscali, sulla quotidiana violazione del diritto lavorativo, sul trascurare degli obblighi assicurativi, sull'esaurimento delle risorse naturali. Si tratta di un modello di "sviluppo scadente", che ha da tempo raggiunto i suoi limiti.
Dall'altro lato, il livello e tipo di consumi che abbiamo adottato è paragonabile (se non addiritura ancora più costoso) a quelli di economie molto più avanzate della nostra. Allo stesso tempo, il declino dei servizi pubblici, come per esempio la scuola e la sanità, significa che l'effettivo costo di vita è molto superiore che in altri paesi dove invece questi servizi sono accessibili gratis o quasi.
In parole povere, mentre l'economia greca perde quota nei mercati internazionali perchè produce beni di bassa qualità o di alto prezzo (o di tutte e due), la domanda interna assorbe un livello alto di consumi (per lo più prodotti d'importazione), finanziati tramite l'indebitamento pubblico e privato.
Chiaramente, questa situazione non è sostenibile. Colmare la distanza fra capacità produttive e aspirazioni consumistiche non è una discutibile scelta politica, ma una semplice necessità. Non avendo voluto affrontare questo problema ai tempi delle vacche grasse, siamo costretti a farlo oggi: ai tempi delle vacche magrissime.
Costruire un altro modello produttivo, e in fretta, non è facile. Questo compito presuppone una cultura imprenditoriale che rispetta il lavoro e investe su di esso, e che mira a produrre prodotti di qualità a prezzi competitivi. Presuppone anche una "moralità di lavoro" molto più esigente da parte dei lavoratori e i loro rappresentanti. Presuppone infine riforme incisive, capaci di affrontare tutti i problemi cronici dell'economia, del mercato del lavoro, del welfare, dell'istruzione, della giustizia.
Tuttavia, per quanto velocemente si riesca a spostare il "sistema paese" in questo senso, la crisi non può non toccare i consumi. Infatti, pochi dubitano che la stagione dell'austerità inaugurata con le misure del governo sarà con noi per lungo tempo. Ovviamente, i tagli agli stipendi non avranno nessun effetto se non si pone fine all'immunità fiscale delle altre categorie, agli sprechi di risorse pubbliche, alla corruzione diffusa. Perchè abbia successo in termini economici, l'austerità deve essere equa in termini sociali. Come diceva Enrico Berlinguer più di trenta anni fa', in un contesto diverso ma non troppo, "una politica di austerità deve avere come scopo quello di instaurare giustizia, efficienza, ordine, e una moralità nuova".
Effettivamente, l'aumento sostenuto dei consumi negli ultimi anni non sembra aver reso più felici le persone. Al contrario, ha alimentato un benessere falso, fatto di cose materiali e la loro accumulazione esibizionista e superficiale. Ha aggravato le ineguaglianze, ha accentuato la criminalità e le altre patologie sociali, ha peggiorato il declino dell'infrastruttura pubblica, ha accelerato la devastazione dell'ambiente.
Chiaramente, il rapporto ricchezza/felicità tende ad essere asimmetrico: anche se l'aumento del reddito non sempre porta alla crescita sociale e non garantisce un benessere genuino, inevitabilmente una sua diminuzione provoca maggiore sofferenza, insicurezza, capovolgimento di progetti di vita.
Eppure l'austerità può diventare occasione per cambiare rotta. Per attenuare il disagio di chi ha subìto una diminuzione del reddito basterebbe invertire la tendenza della privatizzazione spontanea e quasi volontaria dei beni sociali. Basterebbe migliorare la qualità delle scuole e degli ospedali – ma anche degli spazi urbani, delle piazze, dei giardini pubblici, dei parchi nazionali, dei boschi e delle spiagge libere.
Non è difficile immaginare una quotidianità alternativa: frequentare la scuola del quartiere, visitare gratis il medico di base, favorire i mezzi pubblici, andare in bici, passeggiare su marciapiedi comodi e strade pedonali senza moto, nuotare in spiagge libere (non in quelle organizzate), fare sport nei parchi con gli amici (non in palestre private da soli), cucinare a casa in compagnia, boicottare i ristoranti alla moda spesso noiosi e quasi sempre sopravvalutati.
Sarebbe troppo paradossale sostenere che, su questa base, l'austerità (cioè la diminuzione dei redditi) equivarrebbe a un miglioramento della qualità della vita?