Δημοσιεύτηκε στη μηνιαία εφημερίδα «Eureka» (Ιανουάριος 2009)
Anche se è ancora troppo presto per stabilire che cosa ha causato la “ribellione” dei giovani, proviamo a riordinare le nostre idee.
Un agente della polizia che usa la sua arma per uccidere (a quanto pare, a sangue freddo) un 15enne perchè lo ha insultato è ovviamente un caso eccezionale. Il senso d’impunità dei nostri poliziotti e la loro percezione di stare al di sopra della legge è invece la regola. Non tutti sono assassini, certo. Ma è vero che la polizia agisce troppo spesso con brutalità gratuita (per esempio nei confronti degli immigrati), è vero che nei suoi ranghi la corruzione è troppo diffusa, e soppratutto è vero che i poliziotti violenti e/o corrotti possono sempre contare sulla complicità di colleghi e superiori, e sulla “comprensione” dei giudici. La faccenda si complica assai quando c’è un morto (e così giovane poi) – ma, come è successo prima, un modo per trasformare una sentenza di ergastolo di primo grado in appena tre anni di reclusione, e poi la libertà, si trova sempre. Perchè pensare che questa volta andrà diversamente?
Questa sfiducia nella capacità della polizia e dei suoi vertici di punire i colpevoli e di sradicare quello che è marcio al suo interno si colloca in un contesto di sfiducia generale nei confronti delle istituzioni – tutte. Basta sfogliare i titoli dei quotidiani negli ultimi due o tre anni: giudici che proteggono i criminali; monaci che vanno in giro in elicottero (“per fare più in fretta”) e hanno offshore accounts milionari; e, ovviamente, ministri che usano le risorse dello stato come se fosse loro proprietà privata. Un degrado morale mai visto prima, durante il regno di un primo ministro cha aveva promesso di sconfiggere i poteri forti (o, testualmente, con eleganza tipica, di “abbattere i ruffiani”).
In questo cocktail già poco promettente si deve aggiungere il fatto che la quotidianità attuale e le prospettive future dei giovani sono piuttosto cupe. Come mostrano gli studi internazionali, i nostri liceali studiano più e imparano meno di tanti altri europei loro coetanei. Le università migliori lavorano bene, ma escono sconfitte dalla burocrazia statale e lo scombussolamento provocato dalla contestazione endemica e cieca da parte di una minoranza dei loro studenti. Il livello di disoccupazione dei giovani è paragonabile solo al sud d’Italia. Anche chi lavora deve fare i conti con stipendi bassissimi e contratti precari. E, in sottofondo, la presenza soffocante di una famiglia iperprottettiva che non crede più al lavoro come valore ma coltiva invece aspettative alte e infondate.
Tutto questo aiuta a capire l’intensità della reazione di tanti adolescenti all’uccisione del loro coetaneo. Ma per spiegare la violenza, i danni alle banche e ai negozi, e la distruzione delle università statali, delle bibliotecche pubbliche, dei teatri nazionali, ci vuole ben altro. Bisogna andare oltre la repulsione dei borghesi, che sicuramente sembrerebbe meno inverosimile se non fossero così abituati ad evadere le tasse e ad ignorare le regole quando gli fa comodo. Bisogna anche mettere da parte le analisi (auto-)assolutorie dei nostri rivoluzionari finti che battezzano “rivolta sociale” (e dunque, si intende, degna di rispetto) ogni violenza cieca e indiscriminata nei confronti delle università, delle biblioteche, dei teatri – tutte istituzioni pubbliche e, guarda caso, tutte indifese.
Per capire la violenza di un numero elevato di giovani, e la complicità alla violenza di un numero ancora più elevato di giovani e meno giovani, bisogna invece affrontare temi e argomenti piuttosto scomodi. Come l’indifferenza profonda – se non il compiacimento aperto – di una stragrande maggioranza dei greci nei confronti delle varie azioni dei terroristi del gruppo “17 novembre”. Come la solidarietà spontanea di una maggioranza altrettanto ampia ai regimi e ai leader più sanguinosi del nostro tempo (Milosevich, Saddam e altri) per il solo merito del loro antiamericanismo. Come il silenzio dei sindacati e la scarsa attenzione del pubblico alle decine di vittime (tutti immigrati) della corsa pazza per completare in tempo gli stadi e le altre strutture dell’olimpiade di Atene. Come la tacita accettazione e, spesso, entusiasta partecipazione al crollo delle più elementari regole di convivenza civile che è il caos del traffico quotidiano. Come la rassegnazione di tutti davanti agli scontri settimanali e perfettamente organizzati fra tifoserie rivali.
Certo, la cultura della violenza non è del tutto sconosciuta nell’Europa occidentale: era abbastanza diffusa nel medioevo, durante le grandi guerre, negli anni di piombo. Né è del tutto sconosciuta nel mondo di oggi: è abbastanza diffusa in quello che una volta veniva chiamato il Terzo Mondo. Forse noi greci, eredi della culla della civiltà, abbiamo solo sbagliato secolo – o continente.