Δημοσιεύτηκε στη μηνιαία εφημερίδα «Eureka» (Απρίλιος 2010)
La trattativa del governo greco con gli altri governi di “Eurolandia” (cioè degli stati membri della zona euro) nel vertice del 25 marzo si è ormai conclusa. Le decisioni prese dall’asse Berlino-Parigi, sottoscritte poi dagli altri governi, hanno consequenze importanti per il futuro dell’Europa, oltre a quello della Grecia. Vediamo un po’ perchè.
Il problema di fondo è ovviamente il deficit e il debito massicci della Grecia. La posizione ufficiale del governo greco dall’inizio della trattativa è stata che il paese non chiede aiuti diretti – e non è difficile immaginare come questa posizione fu influenzata dalla certezza che tali aiuti erano comunque poco probabili. Invece, la Grecia ha chiesto l’intervento dell’Europa affinchè essa possa rifinanziare il suo debito a tassi d’interesse meno proibitivi di quelli attuali.
Certo, se i mercati non sono disposti ad investire su titoli di stato greci se non al 6% (rispetto al 3% dei titoli tedeschi e al 4% di quelli italiani), questo è legato non tanto a una sorta di anti-ellenismo dei mercati finanziari, ma piuttosto alle prospettive non proprio brillanti dell’economia greca. Dall’altra parte, il governo greco ha già varato misure restrittive molto pesanti: deve essere la prima volta nella sua storia che lo stato greco taglia gli stipendi pubblici. Queste misure rischiano di rivelarsi inutili se il relativo risparmio viene usato non per ridurre il disavanzo dello stato e per promuovere il rilancio dell’economia, ma semplicimente per pagare gli interessi altissimi che stanno richiedendo i mercati per continuare a finanziare il debito greco.
Per evitare questo circolo vizioso, il governo greco ha agitato lo spauracchio di un ricorso al Fondo monetario internazionale, sperando che questa prospettiva – certamente imbarazzante per l’Europa – avrebbe accelererato la ricerca di un accordo sul piano europeo di assistenza alla Grecia. Il problema è che i principali destinatari di questo bluff, cioè i tedeschi, non hanno abboccato: “se la Grecia vuol chiedere l’intervento dell’Fmi, forse questa è la soluzione più idonea”, era la mossa d’apertura del governo tedesco alla vigilia del consiglio europeo del 25 marzo.
Come al solito, la posizione tedesca è stata letta in Grecia in chiave anti-ellenico. Ma dal punto di vista tedesco, come ha spiegato Guido Westerwelle (vicecancelliere, ministro degli affari esteri e capo del partito liberal-democratico), gli aiuti facili alla Grecia avrebbero semplicemente indotto all’abbandono delle riforme necessari da parte del governo greco – e, aggiungerei io, all’allegro rimesso in moto di tutti i circoli viziosi greci. Come dargli torto?
Dall’altra parte, la crisi greca assume un significato che va ben oltre il destino della Grecia. Di per se, questo destino ha un’importanza relativamente marginale (tranne ovviamente per noi greci). Al 4% del prodotto interno lordo europeo, l’economia greca non conta molto all’interno di quella europea – anche se il debito greco, a quasi 300 miliardi, è sufficientemente grosso da scatenare una crisi finanziaria. Ma il problema maggiore è un altro: la crisi greca non solo ha svelato le debolezze dell’intero sistema produttivo del paese; allo stesso tempo, ha messo in evidenza anche i limiti della stessa architettura dell’euro, e dell’Unione economica e monetaria.
La stabilità di questa unione – più monetaria che economica – viene minacciata non solo dai deficit cronici dei monelli (oggi la Grecia, domani la Spagna, dopodomani forse l’Italia), ma anche dai surplus cronici dei primi di classe (la Germania in testa). Sia gli uni che gli altri sono le due facce della medaglia: come farà la Francia a ridurre il suo deficit (previsto di arrivare al 9% del Pil nel 2010), se il governo tedesco insiste sulla sua strategia di moderazione salariale sul fronte interno? Contenere i salari tedeschi giova senz’altro alla competitività tedesca, e contribuisce al surplus del suo bilancio esterno – ma allo stesso momento comprime la domanda domestica della Germania e contribuisce ai deficit dei suoi partner europei.
In altre parole, la strategia tedesca dei costi bassi rende più arduo il tentativo degli altri di far ripartire le loro economie tramite l’export al mercato tedesco. L’unica via possibile è la svalutazione competitiva – non della loro moneta (questo non è più consentito all’interno della zona euro) – ma dei salari. Si tratterebbe di un ritorno al nazionalismo economico degli anni trenta, e sappiamo tutti come è andata a finire allora. Come minimo, l’adozione da tutti della strategia di svalutazione competitiva (strategia beggar thy neighbour, come dicono gli anglosassoni) porterebbe inevitabilmente alla fine della stessa Uem e della moneta comune.
Visto così, un piano europeo di assistenza alla Grecia era necessario per evitare questa prospettiva, e “per non esporre l’euro al rischio di reazioni a catena, che ne pregiudicherebbero la sopravvivenza”. Ma, come sottolineano gli economisti italiani Baglioni e Bordignon, da solo non basta: “Una revisione del Patto di stabilità e un maggiore coordinamento delle politiche economiche, dalle politiche salariali a quelle macroeconomiche e fiscali, è condizione indispensabile perchè l’Unione sopravviva.”
Alla fine, dalla partita che si è svolta negli ultimi giorni a Bruxelles e le altre capitali europei sono emerse due novità. La prima è che adesso esiste uno strumento per poter gestire le crisi finanziarie di un paese membro: il meccanismo dei prestiti governativi e bilaterali, con la partecipazione del Fmi. Questo strumento interessa direttamente la Grecia, almeno come una “rete di sicurezza”.
L’accordo su questo nuovo strumento era preceduto dalla decisione di Jean-Claude Trichet, presidente della Banca centrale europea, di accettare i titoli di stato greci come garanzie per i finanziamenti della Bce al sistema bancario greco – a prescindere dalle valutazioni delle agenzie di rating. Si spera che questo avrà un effetto calmante sulle pressioni dei mercati sui bond greci.
La seconda novità è la decisione del consiglio europeo di rafforzare il “governance” economico della Ue e l’approfondimento dell’unione monetaria. Come ha spiegato lo stesso Trichet, dell’acronimo “Uem” (Unione economica e monetaria) è il momento di renderne visibile anche la lettera “e”, cioè l’unione economica. Ovviamente, siamo ancora (molto) lontani da un vero e proprio governo economico europeo. Ma l’Europa ha dato una prova (anche se, come al solito, abbastanza sofferta) della sua volontà di aprirsi al nuovo tema del tanto auspicato coordinamento delle politiche economiche, almeno all’interno della zona euro.