Ομιλία στο 3ο ετήσιο συνέδριο της Ιταλικής Εταιρείας Κοινωνικής Πολιτικής στη Νάπολη (30 Σεπτεμβρίου - 2 Οκτωβρίου 2010)
Care colleghe e cari colleghi
Inanzitutto vorrei ringraziare gli organizzatori di questa conferenza per avermi invitato a parlare a voi. Seguo con molto interesse gli sviluppi di politica sociale in Italia, e le analisi di studiosi italiani. Lo scambio di idee fra ricercatori sudeuropei, soprattutto nelle scienze sociali, di solito avviene tramite strumenti troppo spesso ideati per descrivere altre realtà, e raramente in modo diretto. Ho sempre ritenuto che questo sia un peccato: abbiamo tanto da imparare gli uni dagli altri, sia dai nostri successi che dai nostri fallimenti.
Il mio breve discorso riguarda uno di questi fallimenti. Chiaramente, non è questo il momento né il luogo per un'analisi approfondita delle cause della crisi greca, ammesso che ne sarei capace. Mi limito a ricordare che nel maggio 2010, il nostro governo è stato costretto ad ammettere di fatto l’impossibilità di finanziare il disavanzo fiscale e il debito nazionale attraverso la vendita di titoli di stato nei mercati internazionali, se non a tassi proibitivi. Il default è stato evitato solo grazie all’intervento congiunto di Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale (la cosiddetta “troika”).
La grandezza degli aiuti concordati non ha precedenti nella storia della finanza internazionale: 110 miliardi di euro, sufficienti per coprire il fabbisogno dello stato per tre anni. In cambio, il governo greco ha dovuto far approvvare dal parlamento un “Memorandum di politiche economiche e finanziarie”. Il Memorandum detta in modo dettagliato l’azione governativa dei prossimi tre anni, e prevede tagli di spesa e aumenti di tasse atti a ridurre il disavanzo fiscale al 3% del Pil nel 2014 (dall’attuale 13,6%). É chiaro che l’incisività di queste misure è (anche quella) senza precedenti.
La crisi greca non è ancora finita; forse siamo solo all’inizio. Per un bilancio definitivo dei suoi effetti sociali è troppo presto: bisognerebbe aspettare molti anni ancora. Quello che invece vorrei fare oggi è esaminare il rapporto fra crisi e stato sociale. La mia tesi è che questo rapporto è molto più complesso di quanto possa apparire.
Da un lato, tra i fattori che hanno fatto precipitare la crisi spiccano i fallimenti dello stesso “Welfare state alla greca”, soprattutto l’ammontare vertiginoso della spesa pensionistica in un futuro non troppo lontano.
Dall’altro lato, la crisi sicuramente cambierà (forse radicalmente) lo stato sociale greco: lo priverà di risorse essenziali, ma allo stesso tempo indurrà o accelererà riforme da molto tempo auspicate da molti.
Infine, per lo stato sociale greco la crisi rappresenta una sfida enorme, mettendo in questione la sua capacità di funzionare da ammortizzatore degli effetti della crisi sulle vite delle persone che ne restano vittime. Se il tempo permette, vorrei concludere con alcune riflessioni sul futuro della politica sociale greca nell’attuale clima avverso.
1.
Comincio dallo stato sociale come fattore della crisi. Il caso greco sembra convalidare le previsioni pessimiste di un vecchio filone di pensiero che enfattizzava il ruolo della spesa sociale nella crisi fiscale dello stato, e che in certi casi arrivava ad ipotizzare l’incompatibilità fra capitalismo e democrazia. Le riforme attuate in molti paesi europei hanno smentito queste previsioni, riuscendo a rendere più sostenibile la spesa sociale, spesso senza fatalmente indebolire lo stato sociale come molti temevano. Ma non in Grecia, dove la spesa sociale ha continuato a crescere, spesso senza corrispondenti miglioramenti in termini di qualità di servizi o di adeguatezza di prestazioni.
Si potrebbe benissimo riassumere l’attuale sistema pensionistico greco usando la formula “labirinto delle pensioni”, inventata per descrivere il sistema italiano precedente alle riforme Amato e Dini.
Un sistema frammentato: centinaia di schemi che seguono ognuno regole diverse, dove le categorie più agiate (i medici, gli ingegneri, i bancari, gli impiegati statali) godono dei privilegi più vantaggiosi.
Un sistema ipertrofico: le pensioni forniscono il 24,1% del reddito disponibile della famiglia media, mentre tutte le altre prestazioni sociali (indennità di disoccupazione, assegni familiari, sussidi di abitazione) corrispondono a non più del 3,7% dei redditi familiari messe insieme.
Un sistema insostenibile: le proiezioni della spesa pensionistica prevedono che quella greca dall’attuale 12,6% del Pil a salirà al 24,8% nel 2050, mentre nello stesso arco di tempo quella italiana passerà dal 14,0% al 14,7%.
Infine un sistema inìquo: sia perchè una spesa di tale misura fa scempio del contratto intergenerazionale che dovrebbe stare al cuore di ogni sistema pensionistico; sia perchè anche in termini intragenerazionali l’attuale sistema funziona male, creando più diseguaglianza di reddito e riducendo la povertà degli anziani meno di altri sistemi europei.
Eppure questo sistema (frammentato, ipertrofico, insostenibile e, soprattutto, inìquo) si è rivelato resistente ad ogni cambiamento sostanziale per almeno venti anni.
La lunga storia di riforme fallite (o abortite di fronte reazioni violente, o compromesse da concessioni eccessive alle categorie interessate) è stata raccontata altrove, da me come da altri. Certo, riformare le pensioni è politicamente difficile dappertutto. Ma quello che caratterizza il caso greco è l’egoismo estremo delle categorie privilegiate (nonostante il loro tentativo di dissimularlo con un linguaggio tutto diritti e conquiste sociali), la timidezza dei governi (loro stessi permeati da interessi di parte), e la debolezza delle coalizioni argomentative (advocacy coalitions) a favore di una riforma equa e sostenibile.
É stato davvero impressionante osservare il dibattito sulle pensioni l’estate scorsa. L’obbligo di far rientrare la spesa pensionistica è stato presentato dai politici, e percepito dall’opinione pubblica, come una perdita netta (seppure, per alcuni, inevitabile). L’idea che dovremmo alleggerire il peso dei nostri eccessi sulle generazioni future non è neanche figurata nel dibattito.
Ironicamente, quasi gli unici a cui premeva rendere sostenibile la spesa pensionistica pare fossero i rappresentanti della troika Ce-Bce-Fmi. Certamente, più per difendere gli interessi di chi ha investito sui titoli di stato greco di medio e lungo termine, che per amore nei confronti dei nostri figli e nipoti. Ma certo ciò non rende meno triste la miopia della società greca e dei suoi rappresentanti politici.
2.
Passo ora agli effetti della crisi sullo stato sociale greco. Due tipi di effetti si possono distinguere. Il primo consiste in tagli di prestazioni sociali come parte della politica di austerità con cui il governo sta cercando di ridurre il deficit. Il secondo riguarda le riforme previste nel Memorandum dettato dalla troika Ce-Bce-Fmi, firmato dal governo e approvato dal parlamento come condizione sine qua non per il versamento (a rate) dei sostegni finanziari concordati. Sia i tagli che le riforme interessano soprattutto le pensioni.
Per quanto riguarda le misure di austerità adottate la primavera scorsa, si può calcolare che per le pensioni a 1.000 euro al mese il taglio complessivo è pari al 9%, mentre per quelle sopra i 3.500 euro al mese supera il 23%.
Per quanto riguarda le riforme, già nel luglio scorso è stata varata una nuova legge sulle pensioni. Il passaggio rapido della riforma è un caso emblematico del concetto di “giuntura critica”: dopo uno stallo di quasi due decenni, la legge ha concluso il suo iter politico e parlamentare nel giro di soli due mesi dalla messa in vigore del Memorandum.
La riforma, forse la più significativa nella storia dello stato sociale greco, rappresenta una rottura almeno parziale rispetto alla logica bismarckiana tradizionale. Secondo la nuova legge, una nuova architettura pensionistica prenderà forma a partire dal 2015.
Il primo pilastro sarà la pensione di base, piuttosto modesta (a 360 euro mensili) ma quasi universale.
Il secondo pilastro sarà la pensione proporzionale, con aliquote di rendimento annuo che partono dallo 0,8% per periodi contributivi di meno di 15 anni, e arrivano all’ 1,5% per carriere che superano i 40 anni.
Inoltre, la legge garantisce una pensione minima a chi andrà in pensione con almeno 15 anni contributivi, il cui valore oggi sarebbe pari a quasi 500 euro al mese.
Chiaramente, la nuova legge è stata attaccata da destra e sinistra come crudele e liberista. Si noti che lo stesso è stato detto di tutti i tentativi di riforma pensionistica dall’inizio degli anni novanta in poi. Personalmente ritengo che la riforma meriti una valutazione più articolata.
É senz’altro vero che le pensioni future saranno più basse di quelle di oggi (nel caso dei professori universitari, fino al 52% in meno). In un certo senso, visto il deragliamento della spesa pensionistica, questo non poteva che essere l’obiettivo principale della riforma.
D’altra parte, la nuova architettura pensionistica incorpora molti dei principi di un sistema equo e sostenibile. Negli ultimi vent’anni, disegni di riforma non troppo dissimili furono proposti (ovviamente senza successo) da me come da altri studiosi vicini al centrosinistra.
Per il resto, pare che il governo abbia lottato con la delegazione congiunta Ce-Bce-Fmi per ottenere esenzioni e clausole di salvataggio per le categorie protette. A giornalisti, medici, avvocati, ingegneri e impiegati della Banca di Grecia è stato riconosciuto il “diritto” di mantenere i loro schemi previdenziali separati. Impiegati statali e parastatali assunti prima del 1983 sono esenti dai provvedimenti restrittivi della nuova legge. Infine la riforma non riguarda affatto gli agricoltori (le cui pensioni vengono calcolate secondo regole molto più vantaggiose). In tutti questi sensi la riforma devia dal principio di eguaglianza di trattamento.
3.
La questione finale che vorrei sollevare è la capacità dello stato sociale greco di aiutare le persone a reggere l’impatto della crisi. Che questo impatto sarà fortissimo si può dare per scontato. Secondo le previsioni (forse ottimiste) del Fondo monetario internazionale, nel 2011 il Pil sarà sceso dell’ 8,4% rispetto al suo livello nel 2008, mentre il tasso di disoccupazione ufficiale sarà salito al 14,6% (dal 7,7% nel 2008) e rimarrà sopra il 14% almeno fino al 2015.
Qui il problema principale è l’inadeguatezza degli ammortizzatori sociali e la loro interazione problematica con le realtà del mercato del lavoro. Quest’ultimo, in Grecia come in Italia, è segnato da una vera e propria polarizzazione tra iper-protetti insiders (soprattutto nel settore pubblico) e poco protetti outsiders (immigrati precari e giovani e/o donne con contratti di breve termine).
Fra di loro si colloca una terza categoria dei midsiders, proposta recentemente da tre colleghi italiani per delineare la situazione dei lavoratori regolarmente occupati nel settore formale privato, ma sottoprotetti rispetto agli insiders in termini di accesso a protezioni legali e sociali. La riforma dello scorso luglio, intenta a favorire la flessibilità senza badare troppo alla sicurezza, ha reso i licenziamenti più facili e meno costosi per i datori di lavoro, e con ciò ha spostato la posizione dei midsiders verso quella degli outsiders.
Con ogni probabilità, l’impatto occupazionale della crisi economica sarà asimmetrico. Gli insiders hanno già subìto tagli di stipendio in media pari al 13%, ma nel settore pubblico le perdite di posti sono limitate e interessano solo il numero esiguo di lavoratori marginali con contratti a termine.
I midsiders non possono sperare in aumenti di stipendio che proteggano il loro potere d’acquisto, ma (a differenza degli statali) hanno almeno mantenuto la tredicesima e la quattordicesima. D’altra parte, per loro la paura di perdere il posto è vera, e si percepisce sempre di più.
Ma è probabile che la crisi colpisca gli outsiders più forte che tutti gli altri. Infatti, le prime indagini statistiche rivelano che i giovani, le donne e gli immigrati costituiscono una parte più rilevante dei nuovi disoccupati che di quelli già senza lavoro.
Allo stesso tempo, gli ammortizzatori sociali (come tutte le altre istituzioni dello stato sociale) sono pensati in rapporto alla realtà, o meglio finzione, del lavoratore fordista che può contare su una carriera lavorativa lunga e senza interruzioni. Fatte su misura di chi ha il posto fisso, tali istituzioni penalizzano invece chi può solo sperare in lavori pagati male, senza prospettive, spesso in nero, alternando periodi di occupazione a periodi di inattività, e di conseguenza difficilmente riesce a soddisfare le condizioni contributive per l’accesso alle prestazioni sociali.
Le carenze della rete di protezione sociale greca sono più evidenti in tre aree: sussidi di disoccupazione (soprattutto quella di lunga durata), assistenza sociale (la Grecia è l’unico paese nell’Ue a non disporre di un sistema, neppure a livello locale, di reddito minimo garantito), e assegni familiari (tranne nel caso degli insiders, bassissimi o non disponibili alle famiglie con uno o due figli).
In parole povere, in Grecia gli ammortizzatori sociali favoriscono meno chi ne ha più bisogno.
4.
A questo punto ci si potrebbe domandare: quale futuro per lo stato sociale greco?
Il governo attuale, del partito socialista, eletto nell’ottobre 2009 con un programma vagamente espansionista, si è subito trovato nella posizione poco invidiabile di dover gestire la peggiore recessione dal dopoguerra, nel contesto di una severa crisi di indebitamento, costretto a chiedere sostegni finanziari all’estero e di conseguenza a sopportare l’umiliazione di pesanti interferenze internazionali sulle azioni di governo per almeno il resto di questa legislatura. In queste circostanze, se il governo dovesse decidere che rafforzare la protezione sociale non è tra le priorità più urgenti sarebbe forse comprensibile.
Comprensibile ma sbagliato - stando almeno all’analisi precedente. Perchè lo stato sociale greco, nella sua forma attuale, non sembra in grado di affrontare la crisi.
Sotto questa luce, rafforzare la protezione sociale tramite una politica sociale riformatrice, piuttosto che un lusso che il paese non si può più permettere, diventa indispensabile per la coesione sociale intesa in senso stretto.
Mi fermo qua. Vi ringrazio per la vostra attenzione.