Δημοσιεύτηκε στον ιταλικό διαδικτυακό τόπο ανάλυσης της δημόσιας πολιτικής «lavoce.info» (Παρασκευή 10 Φεβρουαρίου 2012)
La saga della crisi greca va avanti ormai da due anni. Ultima puntata: senza mezzi termini la ‘troika’ di creditori (Fmi-Ce-Bce) pone come condizione, per sbloccare il pacchetto di aiuti internazionali, l’attuazione da parte del governo greco di nuove misure strutturali e di austerità. Fra esse spicca la proposta/pretesa di ridurre del 22% i salari minimi, per dare uno slancio alla competitività dei prodotti greci.
Le parti sociali (datori di lavoro inclusi) hanno bocciato la ‘ricetta neoliberale’ della svalutazione competitiva del costo del lavoro. I sindacati in particolare sono scesi sul sentiero di guerra. Il partito trasversale del ritorno alla dracma (destra nazionalista e sinistra radicale, con il sostegno sentito di intestatari di conti bancari svizzeri, imprenditori offshore, evasori fiscali e speculatori vari) ha gridato all’ennessima offesa all’orgoglio nazionale, parzialmente ripulita con la bruciatura rituale di una bandiera tedesca in Piazza della Costituzione (immagine che ovviamente ha fatto subito il giro dei media internazionali). Il governo invece pare disposto ad accettare, pur con una dose notevole di mal di pancia. Prossima puntata: la coalizione di governo avrà i numeri in parlamento? La Grecia si salverà? Restate con noi.
Cerchiamo di andare per ordine. Che l’economia greca fosse poco competitiva si sapeva già. Alla vigilia della crisi, in piena campagna elettorale per le politiche di ottobre 2009, ha fatto clamore la notizia che – secondo il rapporto annuale del World Economic Forum – la Grecia era scivolata al novantessimo posto della classifica mondiale di competitività, ultima in Europa, dietro al Botswana. Al di là della solita retorica, la reazione della classe politica e delle parti sociali è stata (come al solito) ai limiti dell’indifferenza – comunque, non all’altezza di questa emergenza.
Ha ragione dunque la ‘troika’ a voler ridurre i salari minimi? Si e no.
Si, perchè nonostante i tagli ai salari subiti negli ultimi due anni, il costo del lavoro rimane troppo alto. Secondo i dati della Banca di Grecia, il costo unitario del lavoro nel periodo 2004-2011 è cresciuto del 26% (+34% tra il 2004 ed il 2009, -6% dal 2009 al 2011); quasi il doppio rispetto alla media della zona euro (+14% negli anni 2004-2011).
E si ancora, perchè il salario minimo stabilito dalla legge (€877 mensili su base annuale) è nel 2012 più alto che in Spagna (+17%), molto più alto che in Portogallo (+55%) e sei volte più alto che in Bulgaria (dove si sono trasferiti molte imprese greche negli ultimi anni).
No, perchè in un mercato del lavoro come quello greco, tagliare i salari non garantisce che i prezzi calino. Come ha notato un ex-ministro dell’ economia in tempi migliori (attualmente mio collega), per molti datori di lavoro (sopratutto nelle imprese meno esposte alla concorrenza internazionale) affrontare la crisi non significa ridurre i prezzi per difendere le quote di mercato, ma mantenerli per difendere i margini di profitto. Senz’altro un’attitudine mentale di corte vedute, ma perfettamente coerente con il modello imprenditoriale diffuso nel paese.
No, anche perchè, visto che molti imprenditori hanno adottato una visione piuttosto disinibita della legalità, molti lavoratori precari ricevono già salari sotto il minimo (e senza contributi). Ancora no perchè puntare sui costi bassi, come strategia per la ripresa, mi sembra poco lungimirante: come hanno imparato gli albergatori della Calcidica a loro spese, assumere impiegati bulgari o polacchi e pagarli una miseria non fa altro che incoraggiare i tour operators a offrire contratti a prezzi stracciati: un vero e proprio circolo vizioso.
E no, infine, perchè nonostante una spesa sociale complessivamente vicina alla media europea, lo stato sociale greco si distingue per la mancanza quasi totale di ammortizzatori sociali, adesso che se ne ha più bisogno che mai.
Cosa si può fare? Pretendere che il governo riduca i salari minimi per decreto quando le parti sociali hanno appena deciso il contrario (di non aumentarli) è sicuramente da repubblica delle banane. Dall’altra parte, in questa battaglia c’è molta ipocrisia. Per la confindustria greca non ha senso sprecarsi per ridurre i costi del lavoro quando si può tranquillamente ignorare la legge. Per i sindacati, assenti dalle imprese potenzialmente interessate, si tratta di un gesto meramente simbolico e ad alto contenuto ideologico. In questo contesto, trovare una soluzione non è semplice.
La mia proposta, per quanto possa valere, rivolta ai sindacati e ai partiti del centrosinistra, è di accettare una riduzione del salario minimo, ma inferiore al 22% attualmente in discussione, e di pretendere in cambio da governo e imprenditori il loro impegno su quattro punti: (1) ammortizzatori sociali per le famiglie di disoccupati e di lavoratori poveri; (2) ripristino della legalità dappertutto: nessun lavoratore in nero; (3) riduzione subito dei prezzi da parte delle imprese coinvolte; (4) aumento graduale del salario minimo nel futuro prossimo, man mano che l’economia cresce.
Attendiamo qualche risposta. Ma senza trattenere il fiato.
La saga della crisi greca va avanti ormai da due anni. Ultima puntata: senza mezzi termini la ‘troika’ di creditori (Fmi-Ce-Bce) pone come condizione, per sbloccare il pacchetto di aiuti internazionali, l’attuazione da parte del governo greco di nuove misure strutturali e di austerità. Fra esse spicca la proposta/pretesa di ridurre del 22% i salari minimi, per dare uno slancio alla competitività dei prodotti greci.
Le parti sociali (datori di lavoro inclusi) hanno bocciato la ‘ricetta neoliberale’ della svalutazione competitiva del costo del lavoro. I sindacati in particolare sono scesi sul sentiero di guerra. Il partito trasversale del ritorno alla dracma (destra nazionalista e sinistra radicale, con il sostegno sentito di intestatari di conti bancari svizzeri, imprenditori offshore, evasori fiscali e speculatori vari) ha gridato all’ennessima offesa all’orgoglio nazionale, parzialmente ripulita con la bruciatura rituale di una bandiera tedesca in Piazza della Costituzione (immagine che ovviamente ha fatto subito il giro dei media internazionali). Il governo invece pare disposto ad accettare, pur con una dose notevole di mal di pancia. Prossima puntata: la coalizione di governo avrà i numeri in parlamento? La Grecia si salverà? Restate con noi.
Cerchiamo di andare per ordine. Che l’economia greca fosse poco competitiva si sapeva già. Alla vigilia della crisi, in piena campagna elettorale per le politiche di ottobre 2009, ha fatto clamore la notizia che – secondo il rapporto annuale del World Economic Forum – la Grecia era scivolata al novantessimo posto della classifica mondiale di competitività, ultima in Europa, dietro al Botswana. Al di là della solita retorica, la reazione della classe politica e delle parti sociali è stata (come al solito) ai limiti dell’indifferenza – comunque, non all’altezza di questa emergenza.
Ha ragione dunque la ‘troika’ a voler ridurre i salari minimi? Si e no.
Si, perchè nonostante i tagli ai salari subiti negli ultimi due anni, il costo del lavoro rimane troppo alto. Secondo i dati della Banca di Grecia, il costo unitario del lavoro nel periodo 2004-2011 è cresciuto del 26% (+34% tra il 2004 ed il 2009, -6% dal 2009 al 2011); quasi il doppio rispetto alla media della zona euro (+14% negli anni 2004-2011).
E si ancora, perchè il salario minimo stabilito dalla legge (€877 mensili su base annuale) è nel 2012 più alto che in Spagna (+17%), molto più alto che in Portogallo (+55%) e sei volte più alto che in Bulgaria (dove si sono trasferiti molte imprese greche negli ultimi anni).
No, perchè in un mercato del lavoro come quello greco, tagliare i salari non garantisce che i prezzi calino. Come ha notato un ex-ministro dell’ economia in tempi migliori (attualmente mio collega), per molti datori di lavoro (sopratutto nelle imprese meno esposte alla concorrenza internazionale) affrontare la crisi non significa ridurre i prezzi per difendere le quote di mercato, ma mantenerli per difendere i margini di profitto. Senz’altro un’attitudine mentale di corte vedute, ma perfettamente coerente con il modello imprenditoriale diffuso nel paese.
No, anche perchè, visto che molti imprenditori hanno adottato una visione piuttosto disinibita della legalità, molti lavoratori precari ricevono già salari sotto il minimo (e senza contributi). Ancora no perchè puntare sui costi bassi, come strategia per la ripresa, mi sembra poco lungimirante: come hanno imparato gli albergatori della Calcidica a loro spese, assumere impiegati bulgari o polacchi e pagarli una miseria non fa altro che incoraggiare i tour operators a offrire contratti a prezzi stracciati: un vero e proprio circolo vizioso.
E no, infine, perchè nonostante una spesa sociale complessivamente vicina alla media europea, lo stato sociale greco si distingue per la mancanza quasi totale di ammortizzatori sociali, adesso che se ne ha più bisogno che mai.
Cosa si può fare? Pretendere che il governo riduca i salari minimi per decreto quando le parti sociali hanno appena deciso il contrario (di non aumentarli) è sicuramente da repubblica delle banane. Dall’altra parte, in questa battaglia c’è molta ipocrisia. Per la confindustria greca non ha senso sprecarsi per ridurre i costi del lavoro quando si può tranquillamente ignorare la legge. Per i sindacati, assenti dalle imprese potenzialmente interessate, si tratta di un gesto meramente simbolico e ad alto contenuto ideologico. In questo contesto, trovare una soluzione non è semplice.
La mia proposta, per quanto possa valere, rivolta ai sindacati e ai partiti del centrosinistra, è di accettare una riduzione del salario minimo, ma inferiore al 22% attualmente in discussione, e di pretendere in cambio da governo e imprenditori il loro impegno su quattro punti: (1) ammortizzatori sociali per le famiglie di disoccupati e di lavoratori poveri; (2) ripristino della legalità dappertutto: nessun lavoratore in nero; (3) riduzione subito dei prezzi da parte delle imprese coinvolte; (4) aumento graduale del salario minimo nel futuro prossimo, man mano che l’economia cresce.
Attendiamo qualche risposta. Ma senza trattenere il fiato.