27 Ιανουαρίου 2015

Syriza ha vinto. E adesso?

Δημοσιεύτηκε στον ιταλικό διαδικτυακό τόπο ανάλυσης της δημόσιας πολιτικής «lavoce.info» (Τρίτη 27 Ιανουαρίου 2015)

Dove nasce il successo di SYRIZA

Il popolo greco ha parlato: la coalizione della sinistra radicale Syriza ha vinto le elezioni con il 36,3 per cento dei voti. Non esattamente un trionfo schiacciante, ma una netta vittoria contro l’avversario principale, il partito conservatore Nuova Democrazia (27,8 per cento) alla guida del Governo uscente, e un’avanzata clamorosa per un partito che fino a cinque anni fa era sotto il 5 per cento. Grazie a un sistema elettorale poco razionale, se non addirittura ingiusto, Syriza, con 149 parlamentari su 300, è arrivata a un soffio dalla maggioranza assoluta, ma il prossimo Governo può contare sull’appoggio del partito Anel – Indipendenti greci. Cosa significa tutto ciò per la Grecia e per l’Europa? L’ascesa spettacolare di Syriza al potere è incomprensibile al di fuori del contesto della crisi di debito del 2009 e del salvataggio del 2010. I cinque anni di miseria che sono seguiti, con il Pil greco ridotto del 24 per cento e la disoccupazione al 27 per cento, e in crescita, hanno reso irriconoscibile il panorama politico greco. L’abbassamento improvviso degli standard di vita è stato un brusco risveglio dall’euforia del decennio precedente, quando l’economia greca cresceva più velocemente della media UE. Inoltre, l’umiliazione di dover sottoporre le azioni del governo all’approvazione dei burocrati non eletti di Bruxelles, Francoforte o Washington DC, ha provocato un diffuso senso di impotenza e di rabbia.

Syriza ha abilmente sfruttato i malumori popolari, diventando la forza principale tra tutti i partiti anti-austerità, che comprendono non solo i comunisti e l’estrema sinistra, ma anche la destra nazionalista appoggiata ‘esternamente’ dai neonazisti di Alba Dorata.

Gli alleati "impresentabili"

Inevitabilmente, tutto ciò finisce per portare a un buon grado di contaminazione. Gli Indipendenti greci, nazionalisti “soft” e normalmente classificabili come destra reazionaria e xenofoba, sono diventati i principali alleati di Syriza. Ora, la loro lealtà alla causa sta per essere ricambiata: Secondo le prime notizie, il loro leader diventerà ministro, probabilmente della Difesa, mentre altri esponenti saranno vicemiministri (tra cui uno a fantomatici Affari religiosi). La sovrapposizione tra sinistra e nazionalisti ha raggiunto dimensioni grottesche nel caso di Rachil Makrì, ex Indipendenti greci, ora Syriza. Tra le sue varie buffonate, merita di essere citato l’attacco al vetriolo (‘Vergognati!’) al sindaco di Salonicco, Yannis Butaris, per aver indossato la stella di Davide nel giorno della Shoah, in memoria dei 50mila membri della fiorente comunità ebraica della città che persero la vita nei campi di concentramento, un gesto arrivato con 70 anni di ritardo. Un attacco che tuttavia non ha impedito ai buoni cittadini di Kozani, nella Grecia nordoccidentale, di eleggerla con più voti di qualsiasi altro candidato.

Il problema di una narrazione semplicistica della crisi

Ha importanza tutto questo? Probabilmente sì.

La sinistra radicale ha grossolanamente reinterpretato la crisi degli ultimi cinque anni, facendola passare per una lotta di liberazione nazionale dal giogo straniero. Ha promesso agli elettori un ritorno facile e indolore ai bei vecchi tempi di prima del salvataggio. Ha delegittimato chi non condivide questa opinione come lacché di Fmi e Angela Merkel. Ha riservato gli attacchi più violenti ai commentatori progressisti che hanno osato sottolineare che forse un po’ di austerità e un bel po’ di riforme erano inevitabili per un paese con un rapporto Deficit/Pil del 15 per cento e un’economia con un disavanzo verso l’estero del 16 per cento del Pil, come la Grecia aveva nel 2009.

Per Syriza tutto ciò è un’eresia: interferisce con la narrazione semplicistica (“andava tutto così bene fino a quando questi stranieri maledetti non hanno cominciato a immischiarsi nei nostri affari”) e così popolare da spianare la strada al partito verso il potere. È con questo stato d’animo che il nuovo premier e i suoi ministri incontreranno i loro colleghi europei (e tedeschi) per discutere del futuro del ‘programma greco’.

In un certo senso, la Grecia potrebbe essere vicina come non mai a una soluzione del problema del debito. L’ondata di simpatia internazionale per la condizione critica del paese preme sulla Germania e sugli altri creditori perché accettino un accordo che riduca il peso del debito sull’economia greca. Le possibili linee guida dell’accordo sono state abbozzate la settimana scorsa dal celebre economista Jeffrey Sachs in un articolo sul Guardian, e dai premi Nobel Joseph Stiglitz e Chris Pissarides, insieme ad altri, in una lettera al Financial Times. L’accordo includerebbe un interesse più basso, un allungamento delle scadenze e un periodo di grazia fino a quando l’economia non si riprenderà.

In realtà, una grande maggioranza degli elettori e dei politici tedeschi rimangono contrari a qualsiasi riduzione del debito greco, all’insegna del motto pacta sunt servanda. Sono infastiditi da quello che percepiscono come un ‘ricatto greco’ e sentono che possono permettersi di scoprire le carte. Dopotutto, il salvataggio del 2010 ha dato il tempo alle banche tedesche di ridurre la loro esposizione al debito greco, ora per la maggior parte in mano a investitori istituzionali come la Bce. Ma la pressione aumenta. In fin dei conti, come hanno fatto notare in molti, compresi Sachs e Stinglitz, è stata la riduzione del debito tedesco nel 1953 a mettere le basi per il Wirtschaftswunder del paese negli anni Sessanta.

Questo è probabilmente il miglior accordo che la Grecia può aspettarsi: una riduzione del debito, più un certo spazio fiscale per aiutare la ripresa (e per finanziare il programma sociale del nuovo Governo), in cambio di nuove riforme e bilanci in pareggio, sotto una forma di supervisione internazionale meno dura. È probabile che accadrà? Non molto. Ma non è impensabile che una versione diluita di un simile accordo potrebbe essere offerta al Governo greco.

Verrebbe accettata? È una domanda meno assurda di quanto sembra. Il fatto è che i rappresentanti di Syriza andranno ai negoziati col mandato massimalista di pretendere una larga riduzione del debito e la fine dell’austerità. Poi, il partito è allergico alle riforme: ha combattuto aspramente anche contro quelle più innocue, difendendo il ‘diritto’ di certi lavoratori ad andare in pensione al di sotto dei 60 anni con una lauta pensione, il ‘diritto’ degli insegnanti a non essere valutati per la loro performance e a non essere sottoposti a misure disciplinari se non vanno a lavorare. I più sensibili tra i rappresentanti di Syriza probabilmente riconoscono che la loro posizione nei negoziati è, a dir poco, da ripensare. Ma il loro spazio di manovra è limitato: gli elettori e l’opinione pubblica non accetterebbero niente di meno. Nell’atteggiamento “macho” degli ultimi cinque anni (e oltre) la parola ‘compromesso’ è diventata un insulto. La stessa retorica che ha fatto la fortuna politica di Syriza oltre le più rosee aspettative, ora rischia di metterli con le spalle al muro.

Questa è la situazione in cui si trova la Grecia. Da una parte, una voltafaccia di Syriza sarebbe difficile da vendere ai parlamentari, ai membri del partito e all’elettorato. Dall’altra, una sua posizione ‘intransigente’ fornirebbe ai tedeschi ordo-liberali il pretesto per rifiutare in toto le richieste greche. Anche a costo dell’uscita della Grecia dall’euro.