Δημοσιεύτηκε στη μηνιαία εφημερίδα «Eureka» (Ιανουάριος 2005)
Senza dubbio, per gran parte degli italiani la parola «macedonia» ha (o almeno aveva, fino a pocchi anni fa) un significato culinario-gastronomico piuttosto che politico-storico. Ma non intendo adottare il solito atteggiamento del greco incompreso nei confronti dello straniero che non riesce proprio a comprendere («impara la storia», come dicevano i cartelloni appesi ai muri di tutti gli aeroporti greci nei primi anni ’90). Tutt’ altro. Anche perchè, se è vero che la storia dei Balcani è sempre stata incomprensibile al resto del mondo (con l’ eccezzione sporadica di qualche storico o quella ancora più rara di qualche politico), è altrettanto vero che la versione dei fatti che passa per «storia» ad Atene non è certo quella di Skopje, nè quella di Belgrado, nè quella di Sofia, nè quanto meno quella di Ankara. Allora come spiegare gli eventi del ultimo mese, quando la questione della Macedonia è tornata ad eccitare brevemente la classe politica greca?
Forse è più facile partire proprio dall’ equivoco gastronomico: se all’insalata di frutta è stato dato il nome di una fascia larga della penisola balcanica, è solo perchè la composizione etnica, linguistica e religiosa della Macedonia (intesa, appunto, nel senso geografico) è storicamente stata piuttosto complicata. Ma il mosaico culturale è stato anche un puzzle politico – e spesso, tragicamente, «la polveriera d’ Europa».
Ai tempi del Congresso di San Stefano (1877) che ha assegnato la Macedonia alla Bulgaria, e di quello di Berlino (1878) che ha ripristinato il dominio ottomano su gran parte di questa area, la questione della Macedonia sembrava alla diplomazia europea proprio insolubile. La Macedonia era un territorio strategico, abitato da slavi, greci, albanesi e turchi. Inoltre, il suo porto principale era patria di cinquantamila ebrei sefaraditi, la cosmopolita «ville juif» di Salonicco. Aromano vlacchi, Roma zingari e tante altre comunità nomadiche o minoritarie completavano il quadro. Era piuttosto ovvio che in un futuro non troppo distante l’ Impero ottomano perderebbe la Macedonia. Ma chi fra i nazionalismi emergenti dell’ area riuscirebbe a stabilire il proprio controllo?
Quello che è successo dopo è stato descritto «stato di conflitto continuo»: terrorismo dei nazionalisti macedoni del VMRO (1903), guerriglia greca (1905, molto simile nei metodi e negli effetti), prima guerra balcanica (1912, tutti contro i turchi), seconda guerra balcanica (1913, greci e serbi contro i bulgari), prima guerra mondiale, guerra greco-turca (1921-22), seconda guerra mondiale, guerra civile greca (1946-49). Un mare di sangue, spostamenti di popolazioni e «pulizia etnica» (tramite le armi, gli scambi di minoranze o tramite l’ istituzione moderna dell’ istruzione obbligatoria).
Alla fine degli anni ’40, i confini dei Balcani sembravano definiti una volta per sempre. Per i greci, oltre che patria storica di Filippo il Secondo e di Alessandro Magno, la Macedonia era semplicemente la regione della Grecia del Nord. Una area indubbiamente greca, con i greci arrivati dal Ponto o dall’ Asia Minore, e senza gli ebrei sterminati nei campi nazisti, senza i musulmani «restituiti» alla Turchia, senza gli slavi emigrati o assimilati a metà. Per gli altri macedoni, quelli slavi ma nè bulgari nè serbi, è rimasta la semi-autonomia della Repubblica federale iugoslava di Macedonia – ovvero, la coesistenza con i serbi e gli altri all’ interno di uno stato non sempre rispettoso nei confronti delle minoranze etniche, come per esempio quella italiana d’ Istria, ma che almeno riconosceva i macedoni slavi come sua parte costituente.
Negli ultimi anni ’80, mentre sloveni e soppratutto croati e serbi cominciavano la loro discesa verso il nazionalismo violento, la Macedonia iugoslava di Kiro Gligorov ha lavorato inutilmente fino alla fine per la soppravivenza della federazione. Era logico: la Jugoslavia federale offriva protezione ai macedoni slavi come l’ Austro-Ungheria imperiale di ottanta anni prima offriva protezione agli ebrei. Gli stati nazionali fanno paura alle nazioni troppo debole, alle communità senza nazione e senza stato. La dichiarazione d’ indipendenza da parte della Macedonia iugoslava nel 1992 fu una decisione quasi inevitabile, presa con molto timore e poco entusiasmo.
La reazione greca è ben nota. Prima l’ embargo contro quello stato indifeso e impoverito, voluto da quasi tutta la classe politica e accolto con entusiasmo dalla stragrande maggioranza dell’ opinione pubblica. Poi il rifiuto totale di discutere i termini di qualsiasi compromesso («Macedonia Slava»? «Macedonia del Nord»? «Macedonia del Vardar»?), come quello proposto dalla Presidenza portoghese dell’ Ue nel 1992. Solo qualche centinaia di intellettuali della sinistra democratica e del centrodestra liberale (tutte e due correnti politiche in via d’ estinzione) hanno osato opporsi pubblicamente all’ ondata nazionalista che avvelenava la vita politica. Era allora che lo storico Filippos Iliù, scomparso nel 2004, pronunciò la sua risposta allo slogan ufficiale «la Macedonia è greca» che serve da titolo di questo articolo.
Oggi, la nostra classe politica è ben consapevole di essere prigioniera del delirio nazionalista di dieci anni fa e dei luoghi comuni tanto cari a gran parte dell' elettorato, cresciuto sulla dieta quotidiana di semiverità ripetute ad nauseam da opinionisti ignoranti o dal partito virtuale del nostro arcivescovo. Riconoscere che la politica greca sulla «questione macedone» è stata moralmente difettosa e politicamente falimentare non è certo facile, ma è proprio quel che ci vuole per uscire da questa strada cieca. È troppo chiederlo?