Δημοσιεύτηκε στη μηνιαία εφημερίδα «Eureka» (Φεβρουάριος 2008)
Dopo un breve, e piuttosto timido, tentativo di toccare la patata bollente della riforma pensionistica, e davanti alle proteste furiose di ingegneri, medici e avvocati, il governo greco sembra abbia deciso di rinviare a tempi migliori. Una mossa abbastanza comprensibile, visto che lo stesso governo (eletto due volte facendo della lotta implacabile alla corruzione sua bandiera principale) si sta ultimamente sprofondendo in una serie di scandali, l’uno più disgustoso dell’altro, che mostrano chiaramente non solo che la corruzione è più diffusa che mai, ma anche che i nostri governanti sono più che mai arrogantamente convinti della loro impunitá. Ma questo è un’altro discorso (forse).
Possiamo dunque tirare un collettivo sospiro di sollievo, per il pericolo scampato che le nostre pensioni siano riformate? Non direi proprio. Sta diventando sempre più difficile negare che al sistema pensionistico greco servono urgentemente delle riforme incisive e addirittura radicali. Quelli che negano (o fanno finta di negare) ancora questa necessitá suonano sempre meno convicenti, i loro argomenti sempre più assurdi. Eppure, fare la riforma rimane uno degli obiettivi politici più difficili, a centrodestra come a centrosinistra.
Cerchiamo di spiegare il perchè, a partire dalla necessitá (meglio, l’ineludabilitá) della riforma. Prima di tutto, in termini di sostenibilitá economica, quello greco è il sistema pensionistico più squilibrato d’Europa. Infatti, mentre la spesa pensionistica media nell’Ue è destinata a salire dall’ 11-12% del prodotto interno lordo oggi al 13-14% fra 40 anni, in Grecia si prevede un aumento di questa spesa dal 13% al 24% del pil in 2050. Nessuna economia può reggere un peso simile, e nessuna societá vorrebbe farlo. Negare la riforma oggi vuol dire semplicemente rendere inevitabile una riforma molto più dolorosa domani.
Dal punto di vista della giustizia sociale (o, se si preferisce, di equitá di trattamento), gli effetti distributivi del sistema pensionistico greco si rivelano piuttosto disastrosi. La spesa fuori controllo citata sopra, e gli annessi deficit, oltre a un mero problema di finanza pubblica, costituiscono sopratutto un problema di equitá - equitá intergenerazionale, come la definiscono gli esperti. In poche parole, la difesa accanita dei privilegi, spacciata come battaglia nobile per salvaguardare i diritti sociali, può più accuratamente essere interpretata come un attacco ai diritti sociali delle generazioni a venire: una graduale e unilaterale riformulazione dell’ implicito contratto sociale a loro insaputa e ovviamente a loro sfavore.
Ma anche a livello intragenerazionale, cioè fra le varie categorie dei pensionati e dei contribuenti di oggi, le disuguaglianze sono francamente scandalosi. Non si tratta di un sistema unico e minimamente coerente, ma di una vera e propria “giungla delle pensioni” (come veniva definito il vecchio sistema italiano finchè i governi tecnici a cavallo fra la prima e la seconda repubblica, sostenuti dai sindacati, non abbiano saputo riformarlo). Si tratta di un sistema che trasferisce risorse e diritti dai dipendenti ai professionisti, dai lavoratori privati a quelli pubblici, dalle donne (tranne poche che invece godono dei privilegi assurdi) ai maschi, dai giovani ai vecchi, dai poveri ai ricchi. Inevitabilmente, la povertá fra gli anziani è altissima, decisamente più alta che in molti altri paesi europei, che per le pensioni spendono meno ma la povertá degli anziani sono riusciti a quasi eliminarla.
Una storiella raccontata qualche anno fa da Anna Diamantopoulou, al tempo Commissaria europea di lavoro e affari sociali, in quota socialista, riassume bene il volto cattivo e crudele del nostro sistema pensionistico. «Nella mia circoscrizione elettorale [provincia di Kozani, nel nordovest della Grecia], si trovano le fabbriche della ΔΕΗ [l’Enel greca]. Lì si possono incontrare tre operai che lavorano l’uno a fianco all’altro. Il primo è un dipendente della ΔΕΗ: andrá in pensione a 50 anni e prenderá €1800 al mese. Il secondo è un dipendente della societá in subbappalto: andrá in pensione a 65 anni e prenderá €375 al mese. Il terzo, pure lui un dipendente della societá in subbappalto, pure lui un giorno “andrá in pensione”, nel senso che non potrá più lavorare, ma se avrá una pensione non lo può dire con certezza nessuno.»
Morale della favola: il nostro sistema pensionistico è sicuramente da riformare, e presto. Ma come insegna l’esperienza internazionale e europea, riformare le pensioni è un’ operazione complicata nei migliori dei casi. Perchè sia riuscita ha bisogno di una classe politica distinta da un alto senso dello Stato, una stampa seria e responsabile, sindacati disposti a difendere i diritti di tutti i lavoratori, presenti e futuri, e non solo gli interessi delle categorie privilegiate da cui provengono i loro dirigenti, intellettuali pronti a fare luce su veritá scomode, e infine una societá sobria e matura. I presupposti sono questi. Francamente, non mi pare che siano in vista, almeno per il momento, in questo paese – ma ovviamente mi potrei sbagliare ...