Δημοσιεύτηκε στη μηνιαία εφημερίδα «Eureka» (Νοέμβριος 2008)
Vittorio Foa, uno dei padri nobili della sinistra italiana, è morto il 20 ottobre a sua casa a Formia. Spirito lucido e irrequieto, lontano anni luce dalla politica delle poltrone e appassionato alla politica delle idee, ha unito amici e avversari (da Napolitano e Veltroni fino a Fini e Alemanno) in un saluto di congedo caloroso e pieno di stima profonda che è sembrato andare ben oltre le solite formule di circostanza. Quello che più colpiva in lui, al di là della sua originalità di pensiero e della capacità di sorprendere l’interlocutore con punti di vista sempre nuovi, erano soppratutto le sue qualità umane: la fiducia nelle persone e nella loro capacità di pensare e vivere in libertà, la simpatia spontanea che ispirava ai giovani, l’ottimismo, la buona fede che sfiorava – agli occhi dei più cinici – l’ingenuità.
Nato a Torino 98 anni fa, Foa è rimasto torinese tutta la vita. «Erano tanti gli amici», ricorda Pietro Marcenaro, già "ragazzo di bottega" della Fiom e Flm di Bruno Trentin, oggi senatore Pd, «che ancora pochi anni fa ogni autunno partivamo insieme per andare a trovarlo a Formia, carichi di peperoni cardi e topinambour, per fare una grande bagna cauda». Tipicamente torinese fu anche la sua formazione politica, all’insegna del socialismo liberale di Gobetti e di Rosselli, una tradizione ideale trascurata e sottovalutata ma non per questo meno ammirevole e meritevole di attenzione. Critico nei confronti dei comunisti, di cui sospettava la loro tentazione autoritaria e dottrinaria, con loro condivideva quella concezione di dignità operaia altrettanto tipicamente torinese, e insieme a loro ha lottato senza riserve nella Resistenza e nel sindacato.
Il suo percorso politico si può riassumere così. Frequenta il leggendario liceo D' Azeglio, non a torto definito «scuola di antifascismo» dell’élite democratica torinese. Studia Giurisprudenza, e a 21 anni si laurea nella stessa sessione di Norberto Bobbio. Nel 1933 dopo entra nel movimento Giustizia e Libertà. Nel 1935 viene arrestato e poi condannato a 15 anni di reclusione – «perchè distribuiva dei volantini», come ha ricordato a chi non riusciva a concepire cosa fosse il fascismo molti anni dopo Bobbio. Esce dal carcere di Castelfranco Emilia appena dopo il 25 luglio 1943, e entra subito nelle file del Partito d’Azione e le sue brigate Giustizia e Libertà. Diventa uno dei massimi esponenti del PdA, con Carlo Levi, Emilio Lussu, Guido Dorso, Ugo La Malfa, Altiero Spinelli e Ferruccio Parri, primo Presidente del Consiglio dell’Italia Repubblicana. Dopo lo scioglimento del Partito d’Azione stenta a trovare una collocazione soddisfacente nei ranghi di questo o di quel partito, e si dedica invece al lavoro sindacale nella Cgil. Nei 45 anni della Prima Repubblica attraversa quasi tutto l’arco della sinistra italiana, entrando, fondando a uscendo dai vari partiti. Incredibilmente, lo fa senza nessun calcolo di vantaggio personale, sempre coerente alla sua concezione della politica, per cui quello che conta è la fedeltà ai contenuti ideali e non l’attaccamento alla forma-partito. Successivamente parlamentare del Psi e fondatore del Psiup, nella stagione terribile degli «anni di piombo» passa al Partito di unità proletaria e poi a Democrazia proletaria nel tentativo dichiarato di sottrare la sinistra radicale alla tentazione della violenza. Ogni tanto abbandona senza rimpianti qualsiasi attività politica per dedicarsi alla stesura di vari libri, alla riflessione o all’insegnamento alle università di Modena e Torino. Nel 1987 viene eletto senatore come indipendente nelle liste del Pci. Segue con interesse la nascita del Pds e dei Ds, si schiera a favore della trasformazione dell’Ulivo come somma di partiti a un nuovo soggetto, sostiene il progetto del Pd.
Nei primi anni Novanta Foa venne accusato, da sinistra, di guardare con troppa ingenuità e fiducia alla proclamata trasformazione di An. «Ma Lei si fida delle parole di Fini?» gli venne chiesto. «L'appartenenza politica» rispose Foa «è un dato culturale non genetico. Se uno dichiara di volersi liberare dal mito fascista, io sono contento. Se mi fido? Nella storia della sinistra italiana l'espressione non mi fido è stata una delle regole più perverse». Allo stesso tempo, rimane lontano dal revisionismo storico che va tanto di moda oggi, per cui fascisti e antifascisti sarebbero equivalenti o almeno ugualmente meritevoli di rispetto. In una trasmissione televisiva Pisanò, uno dei fondatori del Movimento Sociale, che allora era senatore, gli si è rivolto dicendo: «Lei sa quanto me che avevamo degli ideali tutti e due. Diversi, certo. Ma la patria era un valore per lei e per me». Foa gli ha risposto: «Senta, sarà pure come dice Lei. Però se vinceva Lei io sarei ancora in prigione. Avendo vinto io, Lei è senatore della Repubblica e parla qui con me».