Δημοσιεύτηκε στη μηνιαία εφημερίδα «Eureka» (Απρίλιος 2014)
Come è ormai noto, una parte della sinistra italiana si sta mobilitando a favore della candidatura di Alexis Tsipras, leader del partito di sinistra radicale greca, alla guida della Commissione europea alle elezioni europee di 25 maggio 2014. L’iniziativa è partita da un gruppo ristretto di intellettuali: la scrittrice Barbara Spinelli, il direttore di «MicroMega» Paolo Flores d’Arcais, lo scrittore Andrea Camilleri, i sociologi Luciano Gallino e Marco Revelli, l’economista Guido Viale. Al loro appello, lanciato online, hanno aderito migliaia di persone (circa diecimila solo nei primi sei giorni). Alla campagna elettorale ha ultimamente deciso di aggregarsi anche «Sinistra-ecologia-libertà», il partito guidato da Nichi Vendola, con una mozione votata al suo ultimo congresso.
Le ragioni principali di questa scelta sono interne alla politica italiana. Come spiega Flores d’Arcais: «In Italia per una larga fetta della societa civile c’è una specie di tenaglia: o Renzi o Grillo. A questa tenaglia molte persone, aderendo al nostro appello, dicono di volersi sottrarre, cercano un’ altra strada.»
Da cittadino greco che segue con interesse la politica italiana senza parteciparvi, non mi posso permettere di entrare nel merito di queste affermazioni. Quello che invece vorrei commentare è la risposta del direttore di «MicroMega» alla domanda piuttosto ovvia: e perchè proprio Tsipras?
Flores d’Arcais (sul Corriere della Sera, il 27 gennaio 2014) offre due motivazioni. La prima: «Innanzitutto, proprio perchè Tsipras è greco. Scegliersi un riferimento ad Atene, e non a Berlino, ha già una forza simbolica.»
Mi limito ad osservare che, nonostante le buone intenzioni dei promotori di questo riferimento, si tratta della stessa forza simbolica che anima lo schieramento transversale nazional-populista, che accommuna i neonazisti di «Alba Dorata» ai terroristi rivoluzionari di «17 novembre» che inveiscono in coro contro il «Quarto Reich» della cancelliera tedesca Angela Merkel.
Mi concentro invece sulla seconda motivazione: «E poi rappresenta il Paese che soffre di più per le politiche di austerity e tuttavia ha saputo dare allo scontento uno sbocco democratico, senza che la rabbia diventasse populismo.»
Tsipras l’antipopulista? Vediamo un po’. Ma prima un breve riassunto della crisi greca, che è senz’altro gravissima. Negli ultimi 5 anni di aiuti finanziari internazionali legati a una politica di austerità da «cura da cavallo», il reddito nazionale si è ridotto di un inedito 24% (paragonabile solo al 30% del Pil statunitense perso durante la Grande Depressione del 1929-1932). Le radici di questa crisi vanno certamente cercate nell’instabilità dei mercati finanziari internazionali. Ma si collocano anche (e, a mio avviso, soppratutto) nelle caratteristiche del «sistema paese» greco.
Basta ricordare che nel 2009 il disavanzo del bilancio pubblico (spese governative meno entrate fiscali) si è rivelato pari al 15,6% del Pil, contro il 3% previsto dai trattati solennemente firmati da tutti i governi, inclusi quelli greci. E che il disavanzo del bilancio esterno (importazioni meno esportazioni) era arrivato nel 2008 al 14,9% del Pil, segno della scarsa competitività dell’economia greca. Si potrebbe riassumere lo stato delle cose alla vigilia della crisi dicendo un po’ brutalmente che la Grecia ambiva a un tenore di vita nordamericano con una cultura imprenditoriale balcanica, tradizioni lavorative medio orientali, e «una amministrazione pubblica di rara inefficienza, sprezzante verso il cittadino, oscillante tra spreco e corruzione» .
Che cosa ne pensa Tsipras? Non si capisce bene. La bancarotta morale prima che economica del paese che ha portato alla crisi, non lo riguarda. Forse perchè la sinistra radicale greca non è mai stata al governo, e dunque non se ne sente affatto responsabile. Ma questa scusa è poco convincente. É vero che la colpa principale per le sorti di un paese è sempre di chi governa, ma in una democrazia anche l’opposizione ha la sua responsabilità. Soppratutto se, come quella greca, ha fatto di tutto per bloccare ogni tentativo di modernizzazione, ogni proposta di riforma, dalle pensioni all’amministrazione pubblica, gridando allo scandalo, e schierandosi sistematicamente in difesa di posizioni di rendita e di interessi parziali.
La retorica di Tsipras è dominata da altri temi: dalla denuncia rituale del neoliberismo, dei poteri stranieri che hanno scelto la Grecia (chissà perchè) come terreno privilegiato dei loro esperimenti disumani, e ovviamente dei loro servitori greci. Per uscire dalla crisi basta liberarsi dal neoliberismo, degli stranieri cattivi, e dei traditori al governo. Poi, a elezioni vinte, basta una proposta di legge per cancellare le politiche dell’austerità e tornare come prima. Facile, no?
Nel frattempo, gli esponenti massimi del partito di sinistra radicale hanno cercato di articolare la loro visione alternativa. Ipotizzando improbabili aiuti alternativi (i rubli di Putin, mai materializzati). Simpatizzando col modello argentino (traduzione: denunciamo il debito, usciamo dall’euro, svalutiamo la dracma, e facciamo come prima). Proponendo di pagare gli stipendi dei funzionari statali e i vincitori di appalti pubblici con titoli di credito «a scopo speciale» (proposta subito archiviata quando è stato fatto notare che questi titoli farebbero da moneta parallela, il cui valore sarebbe subito sceso nel mercato nero). Suggerendo tasse punitive ai risparmi (puntualmente seguiti da una fuga di capitali all’estero). E infine chiedendo all’Unione europea di mostrare la sua solidarietà erogando alla Grecia fondi «di natura non rimborsabile» (traduzione: dateci i soldi che ci mancano per vivere come prima).
Infatti, non c’è protesta che non venga subito sposata dal partito di Tsipras: dai giovani saccheggiatori di Atene dopo l’uccisione di un ragazzo dalla polizia nel dicembre del 2008, agli estremisti entrati nelle università occupate per distruggere aule e laboratori, ai gestori dei locali turistici insorti contro gli ispettori fiscali sull’isola di Hydra nell’estate del 2012, agli indignati di Piazza Costituzione all’attacco del governo e/o della democrazia parlamentare, a seconda dei gusti.
Non a caso, è stata proprio quella protesta, dell’estate del 2011, a rivelare l’entroterra comune del nazional-populismo che unisce la destra nazionalista e la sinistra «rivoluzionaria». Lo spettacolo degli indignati era davvero singolare: la piazza alta occupata da gente che sventolava bandiere greche, quella bassa dal popolo delle bandiere rosse. In coabitazione pacifica, e in perfetto accordo sulla necessità di «fare pulizia», perfino in chiave forcaiola.
Una sintonia negata furiosamente da entrambi le parti, ma confermata dai sondaggi. Come quello post-elettorale di Vprc (luglio 2012), che ha rivelato che fra gli elettori del partito di Tsipras il tasso di gradimento di Michaloliakos leader dei neonazisti di «Alba Dorata» era un rispettabile 16%, e quello di Kammenos leader dei nazionalisti isterici di «Greci indipendenti» arrivava addirittura al 52%. Nello stesso sondaggio si legge che la simpatia fra nazionalisti di destra e radicali di sinistra è ricambiata: il tasso di gradimento di Tsipras da parte degli elettori di «Alba Dorata» a un non trascurabile 14%, mentre fra quelli di «Greci indipendenti» a un robusto 38%.
E confermata anche dai fatti. Come nel caso di Karypidis, candidato alla guida della regione Macedonia occidentale alle elezioni del prossimo maggio, che si è subito rivelato antisemita convinto, provocando le proteste delle organizzazioni ebraiche. Il partito di Tsipras lo ha in seguito sconfessato, criticando allo stesso tempo anche le organizzazioni ebraiche, mentre la direzione regionale del partito ha invece confermato il suo sostegno al candidato antisemita. Affinità elettive.
Andare avanti con altri esempi sarebbe forse noioso. Ma è importante capire come la scarsa cultura democratica di Tsipras e del suo partito, la delegittimazione dell’avversario, la propensione all’intolleranza, trovano sbocco nell’ambiguità delle loro posizioni sul ruolo della violenza nella politica. Anni luce lontani dalla «non violenza» di Fausto Bertinotti, il partito di Tsipras si guarda bene dal non alienare i «compagni che sbagliano»: dai ragazzi che lanciano cocktail Molotov (a volte letali, come quelli che hanno provocato la morte di tre impiegati di banca nella grande manifestazione contro il salvataggio europeo di maggio 2010), agli assassini di «17 novembre» e i loro imitatori. E quando lo scrittore Tatsopoulos, deputato di sinistra radicale, ha osato notare che una parte dell’elettorato di sinistra sembra ammirare i terroristi, è stato subito espulso dal partito. Come ha spiegato il dirigente Voutsis, con tipico linguaggio militare, «siamo in guerra, e esigiamo dai nostri deputati coesione e solidarietà» (cioè disciplina).
Resistenza contro il governo dei Quisling (dal nome del primo ministro norvegese ai tempi dell’occupazione nazista), e governo di unità nazionale (si presume con i nazionalisti soft di Kammenos, contro tutti i moderati): in questo si riassume il programma politico della nostra sinistra radicale. Per il resto, demagogia sfrenata, idee povere, proposte improponibili, progetti confusi. Un non programma, che ha il merito di promettere soluzioni facili e indolori, e dunque elettoralmente molto promettenti. Ecco il segreto del successo strepitoso del partito di Tsipras, passato dal 4,6% del 2009 al 26,9% del giugno 2012.
Da qui la disperazione di una larga fetta della società civile, europeista liberale e progressista, stretta da una specie di tenaglia: da una parte il governo attuale di coalizione conservatore-socialista, che promette di garantire la posizione della Grecia in Europa pur mostrandosi incapace di rompere con la vecchia politica clientelare e corrotta; dall’altra parte, l’opposizione arcobaleno (con tanto di nero), di nazionalisti di destra e radicali di sinistra, che fa capo a Tsipras, l’antipopulista immaginato da Flores d’Arcais.