2 Δεκεμβρίου 2022

No, l’Europa sociale non è un miraggio



Ομιλία στην ημερίδα του Jobless Society Forum "Work in Regress: Ripensare il lavoro in tempo di crisi" του Ιδρύματος Giangiacomo Feltrinelli (Μιλάνο, Παρασκευή 2 Δεκεμβρίου 2022).

Il titolo di questa sessione è: L’Europa sociale è un miraggio?

La mia risposta è: no.

Forse dovrei fermarmi qui (è stata una giornata lunga, ed è già molto tardi), ma spiegherò brevemente perché la penso così.

1. Se prendiamo come criterio la quota di spesa nazionale dedicata alla protezione sociale, dobbiamo concludere che l’Europa non è mai stata così sociale. Nel 2020, la spesa sociale nell’UE (al netto delle spese amministrative) superava il 30% del Pil. Negli Stati Uniti (nel 2019) ammontava al 18%.

2. Ormai da parecchi anni, il campione europeo non è più la Svezia, ma la Francia (35,2%). L’Italia non è molto lontana da questo traguardo: la spesa sociale nel 2020 era pari al 33,3% del Pil. Certo, il 2020 era un anno anomalo, e nel 2019 la spesa sociale in Italia era ‘soltanto’ 28,3% del Pil. Ma questa cifra era a sua volta nettamente superiore a quella del 2007 (prima della crisi finanziaria, 24,3%), oppure a quella del 2000 (prima della moneta unica, 22,7%).

3. Si potrebbe obiettare che, se la spesa sociale è cresciuta negli ultimi decenni, i rischi e i problemi sociali sono cresciuti di pari passo, quindi dobbiamo correre di più per non rimanere indietro. Forse è così. Senz’altro oggi c’è più precarietà e povertà lavorativa rispetto agli anni Ottanta (quando avevo l’età che hanno oggi i miei due figli), e questo è uno dei motivi per cui bisogna ripensare le regole del mercato del lavoro e ribilanciare la spesa sociale a favore dei giovani.

4. Però, per altri aspetti, non ci stiamo necessariamente muovendo nella direzione sbagliata. Per esempio, la disuguaglianza non è in crescita dappertutto: lo è in Italia, ma nella metà degli stati membri oggi c’è meno disuguaglianza rispetto a prima della crisi finanziaria. Complessivamente nell’UE la disuguaglianza nel 2019 si attestava sul livello del 2007, quindi non mi sembra il caso di evocare un mitico passato in cui l’Europa era ‘più sociale’. Anzi, forse è il presente ad essere un po’ sorprendende: abbiamo avuto la crisi finanziaria, l’austerità, la pandemia, eppure lo stato sociale europeo è ancora fra noi ed è più forte che mai – stando ai livelli di spesa sociale. Forse dovremmo addirittura brindare. ('Count our blessings' come dicono gli anglosassoni.)

5. Se infatti è vero, come sostengo, che il modello sociale europeo – nonostante le apparenze – gode di ottima salute, dobbiamo piuttosto chiederci il perché. Qual è il segreto della sua resilienza (per abusare di una parola che va di moda ultimamente)?

6. A mio parere, la risposta va cercata in ciò che scrisse più di 30 anni fa, quando veniva abbattuto il Muro di Berlino, Ralf Dahrendorf (curioso intellettuale, che in una vita sola è riuscito a diventare parlamentare tedesco, Lord inglese e Commissario europeo). Scriveva Dahrendorf che quello che rende l’Europa unica al mondo è l'essere riuscita a quadrare il cerchio, cioè a coniugare (i) libertà politica, (ii) prosperità economica e (iii) coesione sociale. Due di questi tre aspetti sono riusciti a coniugarli altrove: gli Stati Uniti i primi due, la Cina gli ultimi due. Tutte e tre, invece, solo la nostra Europa. (Brindiamo ancora.)

7. Se il liberale Dahrendorf aveva ragione, per lo stesso motivo la democristiana Merkel aveva torto, quando faceva notare (a Davos, nel dicembre 2013) che il vecchio continente rappresenta il 7% della popolazione mondiale, il 25% del Pil mondiale e il 50% della spesa sociale mondiale, insinuando che in un’epoca di competizione globale una spesa sociale così elevata non fosse più sostenibile. Sbagliava: l’Europa è diventata ciò che è oggi proprio perché ha investito così tanto nella protezione sociale. E deve continuare a farlo (certo, in maniera intelligente) se intende mantenere la sua competitività economica oltre che la coesione sociale.

8. Per fare un altro esempio: è senz’altro vero che lo stato sociale danese è più forte di quello bulgaro, perché la Danimarca è più ricca della Bulgaria e perciò può permettersi di finanziare prestazioni sociali più generose. Ma è vero anche il contrario: l’economia danese è più competitiva di quella bulgara proprio perché può contare su una forza lavoro sana e ben istruita, su relazioni industriali non troppo conflittuali, su istituzioni del mercato del lavoro che coniugano flessibilità e sicurezza, e così via.

9. Detto fra parentesi, in una economia di mercato ignorare le esigenze legittime delle imprese non è una buona idea, se abbiamo nel cuore la coesione sociale. Quando il livello, la distribuzione e le regole della spesa sociale minano il buon funzionamento dell’economia, finisce male per tutti – a partire dai più deboli. Avendo osservato da vicino la crisi greca degli anni 2010, ve lo posso assicurare.

10. Cosa fare quindi? Investire, investire, investire: su programmi di sostegno al reddito efficaci (lo stress della povertà estrema danneggia le capacità cognitive delle persone e le induce a errori che ne peggiorano ulteriormente la situazione economica); su asili nido (il miglior investimento possibile e immaginabile, con un rendimento annuo pari al 13% secondo James Heckman, premio Nobel per l'economia nel 2000); sugli altri servizi di cura, aiutando sia i beneficiari sia i rispettivi familiari (di solito donne); e infine su sistemi di formazione che preparano le persone ad affermarsi nell’economia digitale.

Per un’Europa più libera, più prospera e più coesa.